Cesti, Antonio

(Arezzo 1623 - Firenze 1669)

[Anonimo, busto di Marc'antonio Cesti]

Nato ad Arezzo nel 1623, Antonio Cesti cominciò ben presto la carriera di musicista, esibendosi come cantore nelle chiese cittadine. A soli 14 anni prese l’abito dei Minori conventuali francescani, assumendo il nome di frate Antonio in sostituzione dell’originario Pietro, ed entrò nel convento di S. Francesco ad Arezzo, dove la sua presenza è documentata fino al 1643. Le informazioni sulla sua formazione musicale sono scarse: forse fu allievo di Carissimi e Abbatini a Roma, ma nessuna fonte ci conferma la sua presenza in gioventù nella città pontificia. Trasferitosi nel convento francescano di Volterra, ricoprì i ruoli di organista, di maestro di cappella della cattedrale, di maestro di musica del seminario e, contemporaneamente, quello di organista a S. Croce a Firenze. Al periodo volterrano risale l’amicizia con il commediografo Ricciardi e con il pittore Salvator Rosa, con il quale intrattenne un’intensa corrispondenza, importante per la ricostruzione di molti particolari della vita di Cesti e della ricezione delle sue opere. Nel 1649-50 fu a Pisa come tenore nella cappella del duomo, poi a Firenze e Lucca, dove conobbe Francesco Sbarra, suo primo librettista e collaboratore in Austria negli anni Sessanta. Nel 1653, grazie all’interessamento di Mattias de’ Medici, fu assunto alla corte di Innsbruck, presso l’arciduca Ferdinando Carlo del Tirolo, in qualità di maestro di cappella della camera; il ruolo era stato confezionato apposta per Cesti e comportava la responsabilità dei musici di camera, la composizione di musica di intrattenimento e la supervisione del teatro d’opera di corte. Eccetto una breve parentesi romana presso la cappella pontificia, Cesti rimase a Innsbruck fino al 1665, quando, in seguito all’estinzione del ramo tirolese, si spostò con Sbarra a Vienna. Alla corte imperiale fu nominato “cappellano d’onore” e “intendente delle musiche teatrali dell’imperatore”; emblema di questo periodo è Il pomo d’oro, opera monumentale in cinque atti, composta per il matrimonio di Leopoldo I con l’Infanta di Spagna. Rientrato alla fine del 1668 a Firenze, vi morì l’anno seguente e fu sepolto ad Arezzo. Cesti si dedicò quasi esclusivamente al dramma per musica, intonando, nell’arco della sua carriera, una decina di libretti. Nella sua produzione si può distinguere fra gli allestimenti giovanili destinati ai teatri pubblici e le commissioni di ambienti privati dotati di maggiori risorse economiche. Le opere veneziane rappresentano il primo tentativo di concorrenza al successo di Francesco Cavalli e sono caratterizzate da una forma più semplice rispetto a quelle concepite per Innsbruck e per Vienna, dal momento che prevalgono i recitativi secchi, vi figurano pochi ensembles strumentali e permane un distacco marcato tra aria e arioso. Per il momento l’abilità compositiva di Cesti si manifesta soprattutto nel trattamento delle situazioni comiche e nel delineare i personaggi buffi; eppure, consacrate dai palcoscenici veneziani, queste prime composizioni ebbero una diffusione molto ampia e inaugurarono alcuni teatri pubblici in città periferiche e di provincia. I drammi “austriaci” successivi, a partire dalla Dori del 1657, si contraddistinguono per una maggior ricchezza di pezzi concertati e di sezioni corali, e sono incentrati su soggetti non più storici ma allegorici e mitologici. L’abbondanza di mezzi a disposizione di Cesti si dispiega specie nel Pomo d’oro, che prevede un cast di oltre venti personaggi e che nel 1668 fu rappresentato in un teatro appositamente costruito per le nozze dell’imperatore. La fama postuma di Cesti e la conoscenza diretta che di lui ebbe il Settecento sono legate alla feconda produzione di cantate da camera a una o due voci, comprendente 61 lavori scritti per basso o soprano e basso continuo, in cui domina il principio della varietà inteso sia come libertà nella successione, nella lunghezza e nel numero di arie e recitativi, sia come impiego di forme e metri diversi. Nonostante queste composizioni fossero eseguite e diffuse già fra i contemporanei, esse non videro mai la pubblicazione, per cui resta oggi difficile stabilire una cronologia, se non assolutamente approssimativa.

 

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